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Rivista “Musica Jazz”, articolo di G. Festinese
A Dark Dress: Un «vestito scuro» in musica che può avere molti, molti significati diversi: la tenuta d’ordinanza di chi saliva su un palco suonando jazz, qualche decennio fa, quella attuale quasi obbligata di chi ha a che fare con gli spartiti classici, il neutro nero addosso per far brillare, invece, l’attenzione sui colori della musica. A tutto questo devono aver pensato Max Di Carlo e Stefan Rölsmair quando hanno dato nome al loro duo, un paio d’anni fa (molti concerti, attività in studio, video). Una creatura musicale che non usa partiture, ma l’improvvisazione.
Il marchigiano Di Carlo è un eccellente trombettista formatosi nella musica classica, innamoratosi del jazz, e specializzatosi poi anche nella pratica del canto armonico con il maestro vietnamita Tran Quang Hai, lo stesso musicista che formò pure Demetrio Stratos degli Area, tanti anni fa. Dalla sua ha sull’ottone un suono rotondo e flessuoso, lievemente malinconico: scia davisiana, dunque. Stefan Röslmair, toscano di nascita (a dispetto del nome) diplomato in pianoforte, è uno specialista di elettronica e sound design: dal vivo oltre agli ottantotto tasti acustici ha una quantità di devices che gli permettono di interagire in tempo reale con il compagno vocalist e trombettista. Ma molto è demandato, anche, al contatto diretto e percussivo con tutto il pianoforte.
A Genova, paradosso della sorte, dopo essere stati l’anno scorso ospiti di un centro sociale, hanno fatto ritorno come invitati degli Aperitivi in Jazz del teatro Carlo Felice, tempio della lirica: iniziativa salutata da un gran concorso di pubblico attento. Dopo aver dato indicazioni al pubblico per un «ascolto attivo», il duo ha dato vita a un lungo set improvvisato caratterizzato all’inizio da un’accorta esplorazione di suoni incantati e rarefatti, resi quasi spaziali dalle frequenti incursioni di Di Carlo tra il pubblico, con la tromba spesso sordinata. Poi ha fatto seguito una sostanziosa porzione in cui Di Carlo interagiva con Rölsmair sulla cordiera e i legni dell’interno del pianoforte, per passare a una sequenza in cui la voce, lanciata nel canto difonico, trovava specchio e risonanza negli echi elettronici. Finale con un episodio tra i più riusciti: un’impettita e sbilenca marcetta, inevitabilmente stralunata nell’ironica ricerca di marzialità, sottolineata da effetti scoppiettanti: un po’ come quando Daniele Sepe, tanti anni fa, si divertiva a riproporre il Totò direttore d’orchestra.
Musica difficile? Non si direbbe, a giudicare dalla risposta del pubblico. Che ha richiamato A Dark Dress sul palco per un’altra sequenza di jazz spurio costruito con i cocci di altre mille musiche.
Per i curiosi: www.Adarkdress.com/listen
G Festinese
Rivista “L’Acerba”, di Virginia Chiavaroli
Il piacere liberatorio nella cultura musicale della tradizione
Maître des voix
Rivista “choralitier”, di Massimiliano di carlo
Il canto difonico è una modalità di uso della voce definita “a gola stretta” culturalizzata e trasmessa da diverse tradizioni del mondo basate sull oralita’ (Mongolia, Siberia, Sud Africa, Sardegna). Consiste nell’emissione simultanea di due suoni, di cui uno funge da bordone e l’altro è percepibile sotto forma di fischio a distanza di almeno tre ottave superiori rispetto al bordone. Nelle culture tradizionali questo canto era usato anche per scopi teraputici, oltre che per funzioni di comunicazione a distanza tra pastori, ovvero l’equivalente uso della zampogna nella nostra cultura tradizionale Appenninica. In Mongolia ad esempio nel caso di una persona disturbata psichicamente la comunità si rivolgeva al cantore con lo scopo di riarmonizzare attraverso il canto difonico la sfera psichica ed emozionale del “paziente”. Oggi tutto ciò non avviene più in quanto in base alla cultura moderna ci si rivolge al medico e spesso all’assunzione di farmaci. La domanda rimane, quali benefici otteniamo attraverso questo canto? Per quanto riguarda la mia esperienza posso affermare che il percorso di apprendimento del canto difonico è un percorso di conoscenza del proprio corpo, della propria capacità di concentrazione e della qualità di ascolto. Oltre che osservare empiricamente i benefici che questo tipo di canto ha portato a me e agli studenti a cui ho trasmesso questa conoscenza negli ultimi sette anni ho deciso di intraprendere un percorso di ricerca scientifica sulla relazione tra la patologia “acufene” e il canto difonico. Nel marzo 2021 ho avviato assieme a sei partecipanti e alla ricercatrice Valeria Conte, un percorso di osservazione della variazione della patologia nel percorrere il percorso di apprendimento del canto difonico. Ad oggi i risultati osservati, che verranno pubblicati ufficialmente a gennaio 2022, sono: percezione di maggiore stabilità del corpo, maggiore consapevolezza e miglioramento nella respirazione, mascheramento delle frequenze acute e fastidiose dell’acufene, in alcuni casi una notevole riduzione del fischio, e in alcuni casi una sospensione temporanea della patologia. A livello percettivo il canto difonico va a stimolare il funzionamento della coclea e in generale della parte più profonda dell’orecchio (orecchio medio e orecchio interno). Dunque anche sul piano musicale performativo l’apprendimento del canto difonico, oltre ad incrementare l’energia vocale, la facilità di estensione nei registri acuti e gravi e la stabilità corporeo/respiratoria, può ampliare lo spettro percettivo delle frequenze, andando a migliorare l’intonazione e l’accuratezza esecutiva, vocale o strumentale, che essa sia in solo o in ensemble.
La voce che prende corpo
Massimiliano Di Carlo si racconta a Lacerba
Loreto Aprutino – Presentiamo il Corso Nazionale “Lo strumento voce” che avrà luogo a Loreto Aprutino, presso il Teatro Comunale Luigi De Deo in via dei Mille, dall’11 e 12 dicembre 2021 e si concluderà a giugno 2022. Le lezioni si svolgeranno il sabato dalle 16 alle 20 e la domenica dalle 9 alle 13, per un totale di 20 giornate e 80 ore di insegnamento. Per l’occasione Lacerba ha intervistato l’ideatore dell’evento di formazione, il Maestro Massimiliano Di Carlo, docente presso il Conservatorio D’Annunzio di Pescara, specializzato in canto difonico, ed esperto di musiche tradizionali, un artista a tutto tondo, un’anima libera ed errante.
Massimiliano vorresti ripercorrere le tappe fondamentali della tua carriera professionale raccontandoci quando è nata la tua passione per la musica e quando hai capito che sarebbe diventata oggetto della tua professione? È stato un percorso molto articolato, poiché, non accontentandomi dei luoghi lavorativi in cui mi fermavo, cercavo sempre di andare oltre nella ricerca sperimentale. La mia passione per la musica nasce dagli undici anni con la partecipazione come strumentista nella banda di Ancarano, in provincia di Teramo, e con il maestro incontrato alle scuole medie il quale mi ha avviato allo studio della tromba, il mio percorso parte da lì. Lasciata la banda mi sono dedicato all’orchestra. Devo dire poi che mio nonno suonava l’organetto, e pur non avendolo mai sentito suonare, in famiglia c’è sempre stata quell’atmosfera legata alla tradizione, un ambito, quello della musica popolare, che poi ho voluto approfondire molti anni dopo. A diciassette anni ho concluso gli studi accademici presso il conservatorio di Bari, così è iniziata la mia carriera come strumentista d’orchestra. Ho collaborato con illustri direttori d’orchestra, tra i quali Riccardo Muti, nell’orchestra Cherubini di Ravenna; oltre a Kurt Masur, tutti fonte di grande ispirazione, mi hanno sempre esortato ad andare oltre al lavoro orchestrale. In seguito, ho insegnato per un paio d’anni a Genova, tuttavia sentivo fortemente la necessità di viaggiare, volevo sperimentare, così mi sono trasferito in Germania. Lì non conoscevo nessuno, avevo poco in tasca, ma tanta voglia di conoscere. Facevo musica jazz, elettronica e sperimentazioni di vario genere in duo con Stefan Rosemayer, pianista ed ingegnere del suono; si trattava di improvvisazione, salivamo sul palco senza partitura, e basandoci sull’ascolto reciproco e sulla interazione, facevamo i nostri concerti. Siamo stati recensiti dalle riviste Musica Jazz, e Jazz Italia, notati dai critici Festinese e Montano, i quali apprezzarono particolarmente un’esibizione al Teatro Carlo Felice di Genova. In questo periodo di sperimentazione e di fuga dagli schemi accademici, ho incontrato dei maestri della voce che mi hanno aperto un varco sul mondo della tradizione, parlo di Tran Quang Hai, etnomusicologo e performer vietnamita, specialista del canto difonico; e Amelia Cuni, esperta di musica classica indiana. Questi sono stati i due ambiti di studio che ho approfondito e che poi mi hanno offerto una nuova prospettiva verso la tradizione della mia area d’origine. Nonostante un’iniziale riluttanza verso il nostro folklore oggi sovente banalizzato, grazie agli studi e agli incontri con pastori e suonatori, reali portatori della tradizione, ho potuto comprendere il legame tra l’esigenza che avvertivo di allontanarmi dal mondo accademico e la riscoperta della tradizione profonda, una cultura che trascende il folklore oggi legato al solo intrattenimento. Già durante il periodo trascorso in Germania, a Berlino, luogo che concentra le più svariate culture, nonostante mi occupassi di musica elettronica ed underground, avvertivo fortemente il richiamo della tradizione, e improvvisavo con i musicisti turchi nei bar berlinesi. Quell’attrazione verso la cultura popolare mi condusse poi allo studio della musica indiana e del canto difonico con Tran Quang Hai già maestro di Demetrio Stratos, ricercatore della voce di cui ho approfondito gli studi relativi alla sperimentazione vocale ed alla tradizione. Ho approfondito inoltre gli studi di Ernesto De Martino e Diego Carpitella i quali durante gli anni ’50 e ’60 hanno cercato di indagare i rapporti tra tradizione, terapia, psicanalisi e antropologia rituale per comprendere il legame profondo tra il suono tradizionale e l’essere umano. Tutti questi studi mi hanno affascinato tantissimo e fortunatamente, tornando dalla Germania per fare ricerca, l’organetto del nonno tornò tra le mie mani. Organizzavo feste coinvolgendo anziani e famigliari per suonare e ballare insieme, ma soprattutto per confrontarmi con loro e comprendere il linguaggio della musica popolare locale; una sera fu particolarmente intensa, molti di loro ballarono con grande trasporto, fu in quell’occasione che mio zio decise di donarmi l’organetto. L’interesse per le mie ricerche da parte del conservatorio D’Annunzio di Pescara arriva dal docente Paolo Speca che, sei anni fa, mi propose, un laboratorio sulla voce. Ci fu grande partecipazione da parte degli studenti, realmente desiderosi di apprendere e scoprire qualcosa in più sulla vocalità. Mi resi conto che in Italia c’è una scarsissima attenzione verso il fenomeno antropologico vocale. Dalla cultura agropastorale trae origine la tecnica del canto difonico, disciplina che insegno agli studenti a partire dal primo anno di conservatorio. Da quest’anno accademico 2021/2022, nasce il primo corso di musiche tradizionali.
Dato il ruolo centrale che la musica assume nella tua vita, essa ti ha portato a viaggiare molto durante le tue ricerche, cosa ti ha spinto, oggi, a ristabilirti in un piccolo Paese come Loreto Aprutino? Penso sia stato Loreto a scegliere me, poiché mi è giunta la notizia di un centro storico disabitato in cerca di artisti. Insegnando a Pescara cercavo una residenza vicina al conservatorio e sono arrivato qui. Inoltre, subisco la fascinazione per il rito di San Zopito a cui è legato l’uso della zampogna ed un corredo musicale molto ricco attorno alla tradizione. Mi sono detto: se è il Paese a chiamarmi è giusto che io stia qui. Non so per quanto tempo resterò, per adesso sono qui, ora siamo al Teatro; è un posto bellissimo, ci sono davvero tante fortune. Quando un musicista si approccia ad una piccola comunità parlando con i suoi stessi vocaboli culturali, è la comunità stessa a reagire. L’entroterra italiano è ricchissimo, ma è necessario comprenderne il codice culturale. Posso dire per esperienza diretta che parlando una lingua musicale lontana dalla cultura del luogo, occupandomi di musica accademica o sperimentale, non riscontravo la medesima apertura, per questo sono emigrato in Germania. Tornare a comprendere un codice antico, non contemplato dalla modernità, mi ha riportato qui in Abruzzo.
Questo numero volge lo sguardo al tema del lavoro: volendo riconoscere le difficoltà di fare carriera nel mondo della musica, ti senti di incoraggiare quei ragazzi che mossi da grande passione aspirano a diventare musicisti, cantanti o strumentisti di professione, e quale consiglio vorresti lasciare alle giovani generazioni che scelgono questa grande forma d’arte? Incoraggio fortemente chi sceglie di dedicarsi alla musica purché mosso da una passione profonda che nasca dall’intimo dell’artista, avulsa dai meccanismi burocratici e sociali che ruotano attorno all’arte, spesso inconcludenti e corrotti. Invito a fuggire dagli schemi ufficiali proposti dalle culture di massa cercando ed ascoltando la propria voce interna che spinge ad essere curiosi deviando dalla cultura ufficiale anche costrittiva. Esorto a cercare nel mondo, poiché quando sente la nostra apertura esso si apre ed è la vita stessa ad aprirsi; dunque, ci sarà sempre qualcuno che ospiterà, offrirà generi di conforto, e sarà propenso alla collaborazione, da qui nasce il lavoro. Questo è quello che è successo a me ed è quello che mi succede tuttora, quindi lo consiglio a tutti.
Parliamo del corso: come nasce l’idea di dedicarlo allo studio della voce naturale, come saranno strutturate le lezioni e a chi è rivolto? Quello della voce naturale è stato lo studio che mi ha permesso di sciogliere i condizionamenti dell’insegnamento accademico che prevede di educare ad una certa impostazione della voce e del suono, esortando invece a sentire l’impulso fisico ed istintivo della voce presente già nei primi vagiti che emettiamo da neonati. Fortunatamente le tradizioni sono legate allo stesso istinto e tendono a tradurlo in arte musicale, da questo ho compreso che la voce può essere utilizzata in ambiti accademici, ma ancor più è possibile riscoprirne le potenzialità nascoste che offrono molta più espressione, ricchezza ed energia, condizioni da cui l’arte trae il suo nutrimento. Durante il corso insegnerò a ritrovare un impulso vocale semplice e naturale partendo dalla postura del corpo, dalla sua percezione e dal respiro, per poi passare a scoprire i registri e le estensioni dei colori della voce che appartengono al corpo di ognuno. Ogni partecipante scoprirà la propria vocalità per poi utilizzarla nella vita e nell’ambito professionale. Il corso è rivolto a musicisti, insegnanti, musicoterapisti, ma anche amatori che vogliono scoprire la propria voce. Il team di lavoro comprende esperti in diverse discipline, oltre a me ci sarà Domenico Di Virgilio, ricercatore nell’ambito dell’etnomusicologia che farà luce sugli aspetti teorici legati all’etnografia e all’antropologia. Con Chiara Grillo, esperta della MLT (Music learning theory) di Edwin Gordon, si comprenderà che la musica va appresa attraverso la relazione, l’empatia ed il movimento libero del corpo. Spiegheremo come tutto questo si collega al repertorio tradizionale con uno spazio dedicato all’apprendimento dei canti tradizionali del posto e non solo. Da ultimo, poiché la tradizione italiana deriva da immense stratificazioni culturali mentre oggi si tende ad ignorare tutto questo dal momento che le condizioni economiche e politiche non determinano la necessità di contaminarsi e di conoscersi come in passato e le culture di altra provenienza sono spesso un peso; voglio al contrario valorizzare le culture incontrate durante le mie ricerche: Albania, Kosovo, Ucraina ed Africa. Ho potuto approcciarmi con grandi musicisti provenienti da ognuno di questi territori, artisti che vivono in Italia, in Abruzzo, persone che svolgono professioni lontanissime dalla musica, anche umili lavori, ma che continuano a portare con sé la conoscenza delle tradizioni che non hanno potuto manifestare qui, in quanto emigrati. In quest’ottica la quarta formatrice sarà Olga Ploska, etnomusicologa e performer, direttrice di coro in Russia ed in Ucraina, con lei abbiamo creato il trio vocale “Voci matrici”, Olga instraderà i partecipanti alla conoscenza del repertorio tradizionale ucraino sottolineando le connessioni che lo legano al nostro repertorio tradizionale, poiché anche l’Est Europa ha fortemente contaminato la cultura della nostra penisola. L’obiettivo è quello di aprire gli occhi verso la ricchezza transculturale in ambito artistico, poiché nei codici tradizionali di altre culture c’è un’immensa ricchezza ed ignorarla è un gran peccato.
Mi permetto di riassumere: l’intento, dunque, è di sdoganare la cultura popolare elevandola a linguaggio erudito? Rileggendo i trattati del ‘400 e del ‘500, poiché in epoche precedenti non abbiamo documenti scritti, emerge una strettissima cooperazione tra l’ambito colto e quello popolare, c’era un grande rispetto da parte dell’artista nei confronti della musa popolare, la stessa che ha ispirato i poeti del periodo cavalleresco e che da essa traevano il genio. Si è sempre pensato che il pastore o il contadino fossero ispirati dalle forze naturali. La stessa ispirazione veniva poi elevata all’ambiente colto: Frescobaldi, componendo per organo, si richiamava alle sonate di zampogna che ascoltava dai pastori; Beethoven, Bartòk e Mozart, erano costantemente in contatto con altri ambiti culturali. Oggi riscontriamo un allontanamento dalla tradizione popolare, poiché venute meno le condizioni naturali e funzionali, la cultura agropastorale è quasi del tutto estinta, credo per questo che sia possibile distillare l’enorme patrimonio ereditato dai nostri predecessori, cercando di comprendere la ricchezza di quel codice, per poi elevarlo di nuovo a forma d’arte; auspico un risveglio culturale che generi nuove opportunità artistiche.
Ringraziamo il Maestro Massimiliano Di Carlo per la sua grande disponibilità e comunichiamo ai lettori che è possibile avere ulteriori informazioni relative al corso “Lo strumento voce”, scrivendo all’indirizzo mail info@alberidimaggio.com o telefonando al numero: +39 3281421779.
Debutta in marzo al Carlo Felice un duo di giovani musicisti, sconosciuto ai più, riuniti sotto la sigla A Dark dress. Il concerto si apre in una maniera inconsueta con il pianista a percuotere i tasti e il partner ad armeggiare sulla cordiera dello strumento a coda. Si prosegue successivamente con una sfilata di invenzioni elettroacustiche e di improvvisazioni astratte sull’onda di climi sospesi e onirici. Si ritorna sulla terra con una marcia fra l’ironico e il grottesco. In ogni angolo è nascosta una sorpresa, determinata da una soluzione imprevedibile. Così fino alla fine, con un dialogo coriaceo, ispido, di tromba e tastiere che si rincorrono, in una composizione estemporanea di rara lungimiranza. Le scie delle stelle polari, Cuong Vu, Taylor Ho Bynum, per Max Di Carlo e Marylin Crispell o Myra Melford per Stefan Roslmair possono intravvedersi, nel solismo di tromba e tastiere, ma si percepisce pure la fatica gioiosa di una ricerca pervicace e testarda per edificare un discorso personale, oltre i modelli di riferimento. Il successo è inaspettatamente caloroso per un’esibizione intellettualmente pregnante, ma non fredda, fra le proposte migliori di questa stagione. Il 6 marzo è il turno di un duo ligure di nascita o di adozione, il genovese Dado Moroni insieme al chiavarese, di residenza, Enrico Rava. Il grande trombettista si trova a meraviglia in coppia con i pianisti, basti pensare al sodalizio con Stefano Bollani o a quello con Andrea Pozza.